Mario Nanni è un artista che certamente crede nel mondo, cioè in un ambito di presenze e di esistenze massicce, grevi, corpose, prementi su di lui da ogni punto dell’orizzonte, con una forza ed una violenza che esigono imperiosamente di essere testimoniate. In questo senso di devota aderenza alla bruta materialità delle cose sta forse il tratto più costante che Nanni si è portato dietro, attraverso le varie esperienze cui un artista moderno deve inevitabilmente sottostare. Se un termine, pur così abusato, come quello di realtà vuole indicare prima di tutto tale presenza irrefutabile del mondo, allora non ci son dubbi, Nanni è un pittore della realtà.

In quest’ultimo decennio, tuttavia, abbiamo assistito al definirsi di due possibili modi di rapportarsi al reale. Ci fu prima un rapporto di stretta vicinanza e di contatto: un essere nelle cose, o ancor meglio, nella loro pasta indistinta, e si trattò dell’Informale. Quindi si iniziò a sperimentare un rapporto a distanza, un vedere le cose, lasciandole al loro posto, consentendo che esse si svolgessero in spettacolo, emergessero come tali, come cose, poiché al tempo dell’Informale, più che di cose, si doveva semmai parlare di un’ambigua paste cosale. Ed è appunto in questa fase che si situa da alcuni anni il lavoro di Nanni, come questa mostra milanese esemplifica con grande evidenza.

Ecco quindi che esso ci si mostra subito dominato dagli elementi più intrinsecamente legati al vedere, a un tipo di rapporto col mondo che passa prima di tutto attraverso le vie dell’ottica, piuttosto che per quelle del tatto e dell’immedesimazione sensoriale. Le tele della produzione attuale ci offriranno quindi un vasto repertorio di finestre, di porte, di riquadri, di cornici: Finestra sulle cose è il titolo pressoché emblematico di uno di questi dipinti; i quali dunque vogliono fornirci come uno spettacolo dentro lo spettacolo, uno spettacolo elevato alla seconda potenza. E non ci meraviglieremo che, da ultimo, compaia in queste opere l’elemento più legato all’idea stessa dello spettacolo e della scena: la prospettiva, con il convergere delle sue linee di fuga; qualche volta, presente in modo inglobante e funzionale, come sistema tale da strutturare in profondità tutto l’assetto del quadro (si veda Interno-esterno); altre volte, trattata invece come motivo formalizzato e simbolico: una prospettiva, cioè, offerta come diagramma, come schema giacente inerte a parità di grado accanto ad altri schemi e oggetti. E correlativamente allo sviluppo registrato dai mezzi del vedere e dell’appropriazione ottica, prendono anche sviluppo, come è naturale, le cose.  Tutto quell’appuntarsi di prospettive e di finestre non può non obbligare lo sguardo a farsi più acuto, e a trarre fuori dalla massa imbrogliata della pasta mondana qualche profilo, qualche contorno ben distinto.

Non vorremmo però far creder con ciò a uno spettacolo troppo aereo e troppo lucido. Ricordiamoci pur sempre della devota aderenza di Nanni alla realtà. Il suo spettacolo ne risulta fortemente zavorrato, evitando ogni possibile carattere di illusorietà, da fiera degli inganni, dagioco degli specchi. Le cose quindi non sono tanto messe a fuoco da rescindere ogni legame con il grembo magmatico da cui nacquero. Vi stanno tuttora alquanto impegolate, e se pure hanno acquisito un po’ di mobilità, è una mobilità faticosa, ostacolata da forti attributi, che comunque si lascia dietro scie ben visibili: come spostare un pesante cassone strisciandolo sul pavimento. Ma il curioso è che questa stessa pesantezza e corposità attinge anche l’apparato degli strumenti ottici, contrastandone la tendenza a una idealità lieve e immateriale. Le finestre hanno massicce intelaiature di legno incalcinato; le porte, lo si intende, ruotano pesantemente sui cardini e presentano molteplici stratificazioni. Anche gli elementi più risolutamente avviati sulla strada dell’idealizzazione, come ad esempio certi schemi prospettici, certi effetti decorativi ispirati al motivo di una grata, di un traliccio, non valgono a introdurre una variazione e una decisa puntata verso il bello e il piacevole, ma sono da ultimo riassorbiti nell’atmosfera prevalente di austera laboriosità e di vigoroso impegno mondano: gli schemi prospettici, simili alle cartine impolverate di un ‘progetto’ che le maestranze intente a qualche opera costruttiva si portano dietro nel bel mezzo dei loro materiali e strumenti; i motivi decorativi, pressoché coincidenti con quei solchi che si tracciano su in intonaco fresco, per favorire la ‘presa’ delle applicazioni successive.

Non uno spettacolo piacevole, ripetiamo, non una compiaciuta esibizione di ricerche ottiche o un divertito inseguimento di miraggi. Ma una ferma celebrazione della rude prassi quotidiana e del nostro abituale commercio con gli oggetti, restituiti l’uno e l’altra in un’immagine integrale, comprensiva delle cose stesse che ci si oppongono e che dobbiamo manovrare, così come di tutto l’apparato di schemi e di progetti con cui le pieghiamo alle nostre intenzioni, non senza che quelle facciano giungere anche in tale ambito la loro traccia polverosa, la loro ombra, impedendogli di sentirsi troppo libero e sicuro di sé.

Renato Barilli

Il Milione – Milano, 22 aprile – 12 maggio 1965.