“Autoritratto Aniconico per manualità diverse”

Pulsioni autobiografiche

Lorenza Miretti

Inteso come ritratto di se stesso fatto da un pittore, secondo la più comune declinazione enciclopedica, l’autoritratto partecipa delle medesime connotazioni, contradditorie a livello sia lessicale sia stilistico, proprie del ritratto.

Da opposti spalti, quello del canone o della convenzione e quello dell’imitazione o della mimesi, si fronteggiano i termini che nelle lingue moderne indicano il ‘ritratto’.

Da un lato i vari portrai, portrait, portrat, portret che, in inglese, francese, tedesco e russo, derivano dal verbo latino pro-traho; dall’altro l’italiano ritratto e lo spagnolo retrato, discendenti dal latino re-traho; del verbo semplice traho (ovvero tirare linee) i preverbi pro e re mutano il significato, trasformandolo in disegno qualcosa al posto di qualcos’altro (pro-traho) e ripeto a memoria (re-traho) che evocano modalità stilistiche differenti: adesione al canone, alla regola astratta, alla convenzione il primo, imitazione o referenzialità dell’immagine all’oggetto il secondo.

Analogamente, le due diverse figure mitiche cui si attribuisce la nascita del genere rimandano a due differenti forme ritrattistiche: la fanciulla innamorata che, secondo Plinio, avrebbe profilato su un muro l’ombra dell’amato lontano dà  luogo al ritratto di profilo, mentre il bel Narciso, ammaliato dalla propria immagine riflessa dall’acqua, segna l’avvento del ritratto frontale.

Nel primo caso, siamo di fronte ad un’idea di ritratto che si attiene rigorosamente alle fattezze del modello, con il quasi totale annullamento dell’artista; nel secondo, l’attenzione si sposta dall’oggetto al come l’artista ne fa esperienza.

Tale distinzione, valida in una dimensione mitica, nel reale si fa ben più sottile: «Esclusi i casi classici delle stilizzazioni ieratiche», ha scritto Vittoria Cohen, «ritrarre significa sempre entrare nella persona ritratta, per trasmetterne i tratti somatici o per enfatizzare certi aspetti [per cui] possono essere in gioco soluzioni strettamente accademiche che definiremmo impersonali, ma non sempre lo sono, o forse quasi mai, perché la scelta di un dettaglio, l’accentuazione di un elemento a spese di un altro, potrebbero già suggerire, indicare un orientamento dell’artista che ha davanti a sé il suo soggetto ma non necessariamente lo assume alla lettera»[1]. Non a caso per Marc Fumaroli il ritratto è «il genere più perturbante dell’arte europea»,

L’avvento della fotografia, si sa, ha avuto il merito di liberare l’artista (anche se in modo illusorio) dalle limitazioni del sembiante, per esplorare unicamente più ampi spazi spirituali, finché l’astrazione non è giunta a recidere definitivamente ogni legame con il reale, oramai dissolto e stilizzato: stati d’animo e sensazioni, ridotti a strutture primarie e colori antinaturalistici, prendono il posto sia dei lineamenti fisiognomici sia di quanto, dell’animo, vi potrebbe trapelare. (Le forme geometriche di Autoritratto in due dimensioni di Malevič, insegnano).

Ammettendo, pertanto, che l’autoritratto sia davvero il ritratto di se stesso fatto da un pittore

– dato che non solo Alberto Boatto contesterebbe[2] – non è secondario il fatto che qui l’artista sia costretto a scindersi in soggetto agente ed oggetto passivo, col tramite dello specchio (che funge da mediatore-ingannatore anche solo nel rovesciamento dell’asse facciale) ed il risultato di un doppio, che è sempre entità ambigua e perturbante e che non ammette la mimesis come condizione necessaria e sufficiente alla sua creazione.

L’autoritratto è al contempo la trascrizione di un monologo interiore e la rappresentazione di uno sguardo che guarda ma, pirandellianamente, vede solo uno dei centomila sé possibili; è la memoria di sé, volontaria e libera, che l’artista affida al mondo.

L’uomo ha un innato bisogno di lasciare qualcosa di se stesso, magari un’immagine che dalla riproduzione delle fattezze del volto (fisiche ma anche interiori) più giungere alla sua cancellazione nel XX secolo: l’opera diviene la proiezione su tela o la materializzazione tridimensionale di un sentimento o di uno stato d’animo parzialmente o per nulla coincidenti con la caratterizzazione fisiognomica.

Obbligatorio ricordare pertanto la distinzione operata da Stefano Ferrari tra «l’autoritratto propriamente inteso in quanto riproduzione grafica della propria immagine e la più generica e universale pulsione autobiografica […], cioè il bisogno di lasciare una testimonianza di sé, del proprio esserci, della propria esistenza ecc. – testimonianza che si può esprimere in realtà attraverso svariate manifestazioni e che può avere valenze psicologiche diverse»[3]; per cui «in ogni manufatto è comunque sempre possibile rintracciare qualcosa che appartiene alla sua soggettività e considerarlo un autoritratto»[4], una traccia materiale di sé.

[1] Vittoria Coen, “Il ritratto: descrizione, trasfigurazione, sentimento del contrario”, in Il ritratto identità e storia, a cura di Vittoria Coen, Mazzotta, Milano 2001, p. 8.

[2] Cfr. Alberto Boatto, Narciso infranto. L’autoritratto moderno da Goya e Warhol, Laterza, Roma-Bari, 1997.

[3] Stefano Ferrari, Lo specchio dell’io. Autoritratto e psicologia, Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 18.

[4] Ivi, p.19.